“ Entro l’anno si svolgono moltissime feste […]
I priori, poco prima della festa, vanno di casa in casa chiedendo l’obolo. Nelle altre feste sono le prioresse che adempiono questo incarico. Durante la novena i priori e le prioresse sono obbligati di fornire il « trattamento », cioè il caffè, i dolci ed il vino ai preti e ai cantori, una sera per uno. […] Talune feste vengono fatte a spese di famiglie che possiedono poderi gravati di tale obbligo. […] Le prioresse vanno di casa in casa e, oltre chiedere l’obolo, domandano ai padroni se vogliono « accudire », cioè se vogliono «concorrere» e riunirsi insieme agli altri per celebrare la festa. Le famiglie che vogliono « accudire » devono dare un certa quantità di grano. Tutto il grano accumulato vien ridotto in pane ed in minestra, una specie di minestra detta «filindeu». È una minestra tutta particolare a queste feste; pare un grosso velo e il suo nome forse significa « filo di Dio ». […] Il giorno della festa, nei locali appositi, tutte le famiglie accorse ascoltano la messa, e poi preparano il pranzo e mangiano in comune.[…] Il pranzo consiste in carne e nel « filindeu », che viene condito con formaggio fresco, e che riesce una minestra densissima e squi¬ sita. Tutte le vivande vengono benedette. Il « filindeu » lo si ‘ ritiene quasi miracoloso e viene recato agli ammalati. Ci vuol la fede, però, dicono le donnicciuole nuoresi. […] A sera il resto del pane e del « filindeu » va spartito ad eguali parti alle famiglie concorrenti che però sono in obbligo di pagare di comune accordo le spese occorse. Molte famiglie concorrono solo alla spesa ; allora hanno diritto solo ad una certa quantità di pane e di « filindeu»”.
Grazia Deledda , Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane di Angelo De Gubernatis, 1894.
Il Filindeu è una tradizionale pasta nuorese fatta di pochi semplici ingredienti uniti in una lavorazione particolare che la rendono unica: semola di grano duro, acqua e sale ma la lavorazione è frutto di sapienza ed abitudini secolari, gesti che si tramandano di madre in figlia da trecento anni. Solo l’esperienza dirà quando il semplice impasto è pronto per essere trasformato nei “fili di Dio” : si crea un cilindro di pasta lungo e stretto che verrà poi preso con le mani ad entrambe le estremità, tirato e ripiegato per essere tirato nuovamente sino ad otto volte cosicché si arriverà ad avere tra le mani 256 fili sottilissimi di pasta che vengono adagiati su una “corbula”, un canestro rotondo, sovrapponendo tre strati di pasta per volta che verranno disposti in maniera incrociata tra loro e che, una volta messi al sole, si seccheranno e si uniranno in un unico strato: si avrà un ricamo intrecciato di pasta unico al mondo. Una volta secco si spezzetta, si fa cuocere in brodo di pecora e si cosparge di pecorino fresco grattugiato. Ad oggi si gusta prettamente durante la festa di San Francesco, offerto ai fedeli dal priorato.